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FRIEDRICH GULDA, ALBERT GOLOWIN – “Donau so blue”-“Vienna so blue”

Music Alive | Giugno 10, 2020

Uno dei musicisti che ha alimentato maggiormente il mio entusiasmo negli ultimi anni è Friedrich Gulda. Sono convinto che il suo apporto alla musica possa essere di grande interesse sia per gli appartenenti alla cultura più “impegnata”, sia per chi si muove negli ambiti meno accademici.

Si tratta di uno degli artisti più controversi del panorama musicale del ‘900, che ha suscitato tanta meraviglia per la sua abilità, quanto scalpore per il suo approccio indomito ed ingovernabile.

Viennese, classe 1930,  è riconosciuto universalmente pianista eccelso e fine compositore.

Non è mia intenzione, in questa sede, analizzare minuziosamente la sapiente tecnica che lo ha portato a solcare i palchi più illustri del mondo, ma vorrei accennarne un ritratto della sua personalità, eccentrica e singolare, per riuscire a cogliere al meglio le caratteristiche espresse negli album di cui si propone l’ascolto: “Donau so blue” e “Vienna so blue”.

Nel 1946, appena sedicenne, si mette subito in luce interpretando Beethoven in maniera talmente matura e sicura, da convincere la giuria del Concorso di Ginevra (composta da Felix Weingartner, Nikita Magaloff, Ernest Ansermet e Dinu Lipatti) di trovarsi davanti a un pianista fenomenale, degno erede della migliore tradizione austriaca (si pensi a Mozart).

Affermatosi come interprete del pianismo Beethoveniano (a 23 anni suonava l’intero repertorio delle Sonate di Beethoven in ordine cronologico), si dedica a Mozart, da lui considerato il massimo musicista mai esistito, maestro dei maestri, quindi a Bach, Schubert, Chopin, Ravel e Debussy…

La caratteristica che lo distinse, però, in questo mondo accademico, fu la sua eccentricità, l’insofferenza al palcoscenico “classico” subìto come una sorta di “gabbia”, l’avversione per il frac e l’etichetta che, in quell’ambiente e a quell’epoca, erano considerati necessari, irrinunciabili, solenni.

Il senso di ribellione per il rigore e gli schemi tanto tassativi, creò seri conflitti che gli valsero il titolo di “pianista terrorista”.  

Un bisogno così forte di evasione da tali schemi, sommato al suo carattere eclettico lo avvicina al jazz, all’innovazione, all’improvvisazione di cui ne esalta la creatività.

Gli scandali iniziarono quando, al momento del bis, ad un suo concerto, scelse di eseguire una versione tutta sua di “A night in Tunisia”, celebre brano del trombettista Dizzy Gillespie, completamente estraneo all’universo classico così autoreferenziale. Fu solo il primo di una lunga serie di atteggiamenti “sovversivi”.

Eccentrico, non convenzionale, si presentava in abiti spiegazzati, strappati, indossando uno zuccotto di lana in testa e vere e proprie pantofole ai piedi, “in un ambiente, quello del palcoscenico classico, rimasto uno dei luoghi dove si può trasgredire ancora solo con l’abbigliamento”.

Alle sue esibizioni nessuna luce andava spenta in sala, era sua decisione quando ringraziare il pubblico, spesso con gesti teatrali, senza attenersi ai tempi canonici delle esecuzioni, si prolungava nella presentazione dei brani.  Cambiava a proprio piacimento i programmi concordati, farcendoli di improvvisazioni jazzistiche.

E’ del 1988 il suo rifiuto di esibirsi al Festival di Salisburgo per contrasti con l’organizzazione sui contenuti della scaletta, con composizioni, tra le altre, di Joe Zawinul (Weather Report) da lui stesso scelte…

Tutto ciò in aperto conflitto con la rigida Accademia Viennese, giunse all’aperto rifiuto dell’ambitissimo riconoscimento dell’anello di Beethoven conferitogli dalla critica… Anche arrivare ad esibirsi nudo al flauto traverso, come atto simbolico contro le barriere e le convenzioni del mondo musicale “colto”, rende del personaggio un quadro esplicativo (anche se quest’ultimo evento riporta qualche discrepanza tra le varie fonti).

Con Gulda nulla era certo….

Nel 1999 arrivò addirittura a simulare la propria morte con un necrologio inviato agli organi di informazione, ripresentandosi, qualche tempo dopo, con una esibizione pasquale a Salisburgo dal titolo inequivocabile: “Friedrich Gulda’s Resurrection Party”.

L’anno successivo il decesso avvenne realmente e, caso straordinario, nel giorno del genetliaco del suo amato Mozart: il 27 gennaio.

I critici dell’epoca, come spesso accade, poco intuirono dell’essenza del personaggio. Elogiando puramente la sua tecnica immensa, rifiutarono e contestando la sua anima, che coglie ed esprime ancor oggi il senso di ribellione e rinnovamento degli anni ’70 mantenendosi tuttavia in equilibrio con quel tanto esecrato e sbeffeggiato conservatorismo accademico.

Straordinario musicista, geniale, eclettico, imprevedibile, ha lasciato una sterminata eredità,  musicale e concettuale da cui trarre insegnamenti di straordinaria apertura mentale.

Quanto descritto per delineare, solo sommariamente, la personalità che si cela dietro ai due album qui proposti: “Donau so blue” del 1970 e “Vienna so blue” del 1971 che ripresenta alcuni brani del primo, con aggiunta di nuovi.

La scelta è caduta su questi lavori, tra i tanti disponibili in carriera, perché esprimono una summa della sua personalità, e perché dotati di tali innovazioni ed aperture stilistiche da avermi trasmesso emozione ed euforia…sensazioni che sento di condividere con coloro che avranno la fiducia di affrontarne l’ascolto. Un ottimo modo, inoltre, di approcciare questo artista, per chi non lo conosca ancora.

Entrambi gli album presentano la classica formazione del trio jazz con Friedrich Gulda al pianoforte, Johann Anton Rettenbacher al contrabbasso, Manfred Josel alla batteria.

Alla voce Albert Golowin. Ma chi è questo sconosciuto che vede il suo nome campeggiare in copertina, spartendosi gli onori col ben più illustre pianista?

Nelle note di copertina viene descritto come “un languido, un barbone, un certo tipo di viennese appartenente alla cerchia di Fatty George, un dilettante di grande talento, un baritono atipico, con un’avversione per la sala da concerto”. Si trattò, in effetti, di un ennesimo scherzo, col quale la critica venne, ancora una volta, sbeffeggiata. Solo anni dopo, infatti, si scoprì che Golowin altro non era che lo pseudonimo che egli stesso si affibbiò per le sue performances canore. Nel 1969 apparì addirittura in TV, travestito con parrucca e barba finta, per protrarre la messa in scena.

Gli album in esame contengono composizioni in stile jazz, nelle quali sono fortissimi i richiami al blues, al valzer, al folk, con emozionanti impennate virtuosistiche da concerto classico e inserti vocali di “scat”, il tutto presentato nella forma di canzone, o del lied se preferite.

I testi cantano di amore, di morte e solitudine, in dialetto viennese, spesso provocatori, dileggiatori, canzonatori, in stile kabarett. Autentici esempi di austropop.

Potenti, raffinatissimi, dal suond attuale, e rispettosi dell’unica regola che il compositore si dette: non riconoscere nessuna regola.

Gli album uscirono, all’epoca, in vinile 33 giri. Solo “Donau so blue” fu ristampato nel 2014 in versione CD. Agli appassionati consiglio di aggirarsi tra i mercatini del vinile: non si sa mai che, complice un po’ di fortuna, si riesca trovare una copia di questi irrinunciabili pezzi di storia.

Per un approfondimento si consiglia la lettura di “Friedrich Gulda, lo scandalistico” di Piero Rattalino, 2007 Zecchini ed.

“Donau so blue” è disponibile su Spotify e Youtube

Di “Vienna so blue”, causa  mancata ristampa in CD,  sono ascoltabili solo alcuni brani su Youtube.

Andrea GhezziMusical Box © 2020 – Music-Alive

Pubblicato da Music Alive

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