La ricetta per l’originalità: quali gli ingredienti? Capitolo 1: intervista a Eugenio Finardi.

Prima dello sviluppo e diffusione del personal computer e di tutti gli strumenti tecnici e tecnologici più recenti, effettuare registrazioni o video dignitosi era cosa assai complessa.
Qualcuno si attrezzava con strumenti rudimentali dai quali la speranza di cavare registrazioni, anche solo decenti, era piuttosto vana. Nella maggior parte dei casi il risultato finale era un’audiocassetta in cui il rumore di fondo aveva il sopravvento su qualsiasi nota musicale…
Un singolo o un gruppo che volesse realizzare un “demo” di qualità si affidava a studi di registrazione, più o meno professionali, soluzione che comportava investimenti di tempo e denaro non trascurabili.
Dopo la prima tappa compositiva, ci si chiudeva in sala prove a perfezionare il repertorio, per giungere pronti al momento della registrazione, scongiurando così gli errori di esecuzione e limitando le sovraincisioni, per contenere al massimo i costi delle sessioni, calcolate a ore o a giornate di lavorazione. Si sceglievano gli studi più vicini, quelli più economici allestiti da un conoscente, oppure, chi aveva maggiori disponibilità si rivolgeva ai più rinomati. Significa che solo una piccola parte di gruppi emergenti vedeva realizzato il sogno di un autentico demo su cassetta (ormai preistoria) o su CD. Si trattava, in genere, dei più caparbi, di coloro che si facevano le ossa a lungo e, suonando dal vivo nei locali, nelle piazze e nei concorsi di ogni genere, raccoglievano esperienza e, nella migliore delle ipotesi, le somme necessarie.
Un prodotto apprezzabile era un risultato voluto, cercato fortemente, e solo chi viveva la musica con grande impegno (qualcuno direbbe “versando lacrime e sangue”) arrivava a questo primo, grande passo verso la “professionalità”.
Fare un video era ancor più difficoltoso: una rarità riservata a chi aveva la fortuna di un genitore disposto a concedere l’uso di costosissime telecamere VHS, ma i risultati finali erano (quasi) sempre scarsi.
L’avvento delle nuove tecnologie digitali ha permesso anche ai dilettanti di realizzare registrazioni e filmati di altissima qualità, senza doversi rivolgere ai professionisti di settore e senza paragoni rispetto al passato.
Computers con hard disk dalle grandi capacità, attrezzature semi-professionali ad alto rendimento, costi contenuti, oggi, permettono di allestire mini-studi di registrazione casalinghi con spese irrisorie.
I nuovi canali digitali di comunicazione, d’altro canto, rendono possibile la diffusione della propria “arte”, verso un pubblico teoricamente illimitato.
Grazie ai social network anche il termine stesso “pubblicare” ha cambiato il suo significato: un tempo più ristretto, legato a un editore o ad una casa discografica, oggi enormemente ampliato, associato ai tasti virtuali di Facebook o di Youtube.
Questi nuovi strumenti hanno contribuito all’abbattimento di alcune vecchie frontiere tra il mondo professionistico da quello del dilettantismo: ad esempio la dematerializzazione della musica (la c.d. musica liquida) rende fruibili i prodotti senza vincolarli al supporto fonografico tradizionale, come il vinile o il CD.
Signore e Signori, la democratizzazione della produzione musicale è servita!
Gli effetti positivi di questo fenomeno sono incontestabili perché permettono a coloro che sentono l’esigenza di esprimersi, di farlo in modo più semplice e diretto rispetto al passato.
I nuovi strumenti che consentono a chiunque voglia di proporsi al mondo come novelli “Beatles”, forse saltando qualche tappa, pongono qualche riflessione. Stante la legittimità di esprimere ognuno la propria ricetta, sono evidenti le carenze in termini di contenuti ed originalità delle proposte.
Complici gli strumenti di comunicazione riportati, la nascita dei seguitissimi format televisivi come i “talent show” e l’affermazione, nel mainstream, di celebrità prive di talento (inteso in senso tradizionale), il parterre di aspiranti “artisti” si è notevolmente allargato. Un fenomeno alimentato in buona parte da chi non ha mai provato la faticosa emozione di maneggiare un autentico strumento musicale.
In altre parole: sta prendendo piede l’idea di poter assurgere all’agognato successo senza troppa fatica. La profezia di Andy Warhol riguardo ai 15 minuti di celebrità si è realizzata concretamente.
E’ vero: il termine “successo” si presta a molteplici significati. Ma oggi, pare che questa parola vada legandosi sempre più al mero numero di “like” ottenuti su Youtube o Spotify, piuttosto che ad un meritato riconoscimento di chi riesce ad apportare qualcosa di nuovo e di personale al panorama preesistente.
Che senso ha, quindi, darsi troppo da fare, esercitarsi ore ed ore su uno strumento, studiare e approfondire la conoscenza della musica?
E’ esperienza quotidiana l’imbattersi in canzoni prive di qualsiasi idea anche minimamente originale, spesso con testi sconclusionati senza contenuti. Brani realizzati avvalendosi di basi musicali preconfezionate scaricate da internet o di uno dei tanti software già presettati disponibili a pochi euro.
Usando una similitudine, sono convinto che la composizione di una ricetta culinaria innovativa e gustosa al palato supponga la ricerca e la conoscenza approfondita degli ingredienti, delle tecniche di cucina e molta esperienza. Lo stesso vale – o dovrebbe valere – per la musica: l’originalità e la propria identità si ottengono solo per mezzo di studio, impegno, ascolto, conoscenza della storia e di ciò che è successo prima. Serve vero interesse. Altrimenti finiremmo tutti a cucinare la stessa pasta al pomodoro con l’illusione di essere Gualtiero Marchesi.
Stante la vastità e l’interesse dell’argomento, è mia intenzione sviscerare il tema domandando il parere di personaggi più autorevoli del sottoscritto, per carpire consigli utili a chi si affaccia al mondo della musica da emergente, dilettante o semplice appassionato.
Primo ad aver risposto al mio appello è stato il grande e gentilissimo Eugenio Finardi, intervistato telefonicamente, di cui riporto quanto espresso.
Finardi non necessita di presentazioni, si tratta infatti di un cantautore impegnato, tra i più celebri ed apprezzati del nostro Paese, la cui vasta discografia è costellata di numerose perle ormai storicizzate, e che in questi giorni sta presentando il nuovo singolo “Milano Chiama”.
Nella sua lunga carriera ha collaborato con molti tra i più importanti musicisti del panorama nazionale ed internazionale, cercando costantemente di rinnovarsi, il che rende la sua opinione ancor più rilevante.
Andrea Ghezzi: Riferendomi alle nuove proposte musicali, mi pare di notare una certa carenza di originalità, forse dovuta al fatto che, in parte, le giovani leve non sostengono la creatività con lo studio e l’approfondimento storico e tecnico di quest’arte. Sembra diffusa l’opinione che ciò non serva, perché molte attuali celebrità hanno sfondato senza apparenti fatiche. Cosa ne pensi a riguardo?
Eugenio Finardi: Onestamente, sì, ho notato cose di questo genere, ma c’è da dire che, da giovanissimo, quando ascoltavo il blues, mia madre – cantante lirica – criticava scandalizzata “sono sempre gli stessi tre accordi!!!”, e non riusciva a sopportare che io ascoltassi quella musica. In realtà, io trovo che ci sia un valore estetico anche in molta musica che c’è oggi.
Io appartengo alla generazione di quelli che hanno inventato il Rock, quella di “My generation” degli Who, e quel nostro atteggiamento stile “Why don’t you all f-fade away” è lo stesso che adesso ci sentiamo rivolto quando obiettiamo alla musica attuale che si tratta sempre dello stesso giro o degli stessi due accordi… E’ un po’ un atteggiamento generazionale. Il problema è che noi abbiamo vissuto Bob Dylan, Jimi Hendrix, i Rolling Stones, i Beatles, Frank Zappa, gli Zeppelin… : un’epoca creativa straordinaria come il ‘500 di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, e allora chi viene dopo come fa… rimane un po’ spiazzato! Ma ogni generazione ha bisogno di sentire i suoi idoli, quindi non mi scandalizzo.
Ma, chiedendomi se le cose che escono oggi mi colpiscano in maniera particolare, allora no, è difficile che io rimanga estasiato. Però capita che alcune soluzioni mi interessino: per esempio l’autotune a me piace, e mi piacerebbe provarlo e vedere come poterlo usare.
A.G.: Pochi giorni fa un articolo riportava una tua frase che mi ha convinto a chiedere questa intervista per approfondire l’argomento. “…bisogna cercare l’originalità. Ricevo tanti dischi e ascoltandoli ci trovo un Capossela, un Vasco Rossi, un continuo riferirsi a modelli già esistenti. Io ho la disperata necessità di sentire qualcosa di nuovo e di diverso. Cercate di essere originali!”
Se si vuole essere originali, musicalmente parlando, occorre esercitare ed approfondire lo studio tecnico, teorico e storico della musica?
E.F.: Detto in parole semplici bisogna capire come funziona: per poter far funzionare un motore, devi prima smontarne uno. Questo vuol dire studiare la tecnica. Non significa necessariamente andare al Conservatorio. Mia figlia ha studiato violino al Conservatorio per nove anni ed obiettivamente ha imparato tantissimo, ma per esplorare territori sconosciuti, devi anche provare strumenti, usarli in maniera nuova, rompere gli schemi, capirne l’essenza. Tu rimani stupito se ti dico che mi interessa il Trap, allora proviamo insieme a smontare questo “motore”. Una canzone, in generale, è fatta di un equilibrio di tutte le frequenze, se no può risultare cupa, scura o troppo acre o stridula. Servono note basse, e l’ impulso ritmico di basso, cioè l’equivalente della cassa. Poi serve qualcosa che rientri nelle frequenza alte, possibilmente in maniera armonica, melodica e ritmica, e in mezzo una melodia portante. Ora, il Trap ha sintetizzato questi elementi di alte e basse nel minor numero di segnali possibili, un po’ come l’Haiku, la forma di poesia giapponese, o come “Mi illumino di immenso” di Ungaretti. Le note basse – la cassa e il basso – che nell’orchestra sinfonica riguardano tutta la zona dei corni, contrabbassi, violoncelli, fagotti, sono sintetizzate nelle frequenze basse dell’808, modulate in modo da creare una sfera sonora molto ampia e grossa. Le frequenze alte vengono occupate di solito da un charleston, sempre dell’808, che dà l’andamento ritmico con un loop, poi qualche nota sinusoide ben definita sulle medio-alte, come melodia, e infine il cantato, o il “rappato”. E’ veramente il minimo sufficiente e necessario per fare un pezzo, e io lo trovo splendido. Magari anche con aperture di armonie vocalizzate col vocoder… E’ bello… è come Picasso con la sintesi del toro. Se tu prendi il “primo” Picasso ti rendi conto che molti altri gli facevano un mazzo tanto… poi ha incontrato l’arte africana, ed è come se avesse incontrato il Blues. Così arriva a dipingere Les Demoiselles d’Avignon, rovesciando tutto, cambiando la storia.
I Rolling Stones e i Beatles, e prima ancora Elvis o Chuck Berry, hanno preso la musica nera, suonata negli unici posti in cui i neri si potevano veramente rilassare… leggiti il testo di (Let the) Goodtimes Roll… e da questo è nata la modernità.
Credo che se questi geni della musica di oggi facessero musica coi miei stessi strumenti, forse non sarebbero sufficienti, ma con i loro strumenti fanno qualcosa che io non so fare.
Se invece mi chiedi della qualità di coloro che usano i miei strumenti, cioè i cantautori o i gruppi rock, ecc…, ti dirò che il livello della musica pop attuale mi sembra un po’ scarsino, anche paragonato ai tempi di “Una lacrima sul viso”, a “Paff…Bum” di Lucio Dalla, di “Pietre” di Antoine…
A.G.: Beh, stiamo parlando di un periodo storico il cui fermento culturale straordinario ha impattato e influito sulle proposte artistiche. Gli anni ’60 e ’70 sono stati una grandissima fucina di idee. Nei tuoi primi lavori hai avuto la possibilità di collaborare e confrontarti con coloro che sono stati riconosciuti tra i migliori musicisti del panorama italiano e non: erano un insieme di persone di tale levatura che hanno avuto un’influenza micidiale. Quali erano i vostri riferimenti musicali per arrivare ad elaborare qualcosa di nuovo?
E.F.: Ciò che ha reso particolare quel periodo sono state le famose contaminazioni. Nel nostro caso ad un certo punto è arriva la Fusion. MilesDavis ha fatto “In a Silent Way” e “Bitches Brew” (1969) che hanno cominciato a cambiare il Jazz. Nel Rock c’è stata una “trasfusione di geni”, del DNA del Jazz, del DNA africano che ha portato alla Fusion. Come il Progressive si contaminava con la musica classica, noi ci siamo contaminati con un vastissimo mondo sonoro.
Rispetto a quell’epoca, il mondo attuale è molto chiuso. Quelli che fanno musica adesso, già hanno scelto che genere fare, prima ancora di scrivere la loro prima canzone: indie pop rock alternative…tutte ‘ste menate qua, queste etichette del cazzo… che invece a noi non interessavano.
Prendi una canzone come “Scimmia”: ci sono dei violoncelli quasi classici, il pezzo è portato da un basso alla Pastorius pazzesco di Ares Tavolazzi, le armonie sono da canzone sui generis…il risultato era il frutto di un collettivo di esperienze di ascolti molto, molto vari. Se tu andavi ad un festival pop o ascoltavi la radio negli anni ’70 sentivi di tutto: da chi suonava il flauto traverso, agli Inti-illimani che cantavano musica Andina, a John Cage che addirittura non suonava, o lo faceva a modo suo usando e spostando oggetti sul palco! Tutti erano aperti e sentivano cose nuove, diverse. Prendi gli Area: non erano mica piacevoli da ascoltare… erano una “botta sonora”! Non volevano essere piacevoli, non che volessero essere spiacevoli, ma erano un assalto sonoro continuo, però tutti stavano lì ad ascoltare…
A.G.: Per raggiungere e ribadire questo risultato creativo credo che serva un particolare interesse, un’apertura mentale verso tutte le proposte storiche o contemporanee, affinché quei mondi possano entrare a far parte del proprio DNA, del proprio “vocabolario”, per poi arrivare a creare la propria personalità…
E.F.: Sì, è assolutamente così. Più fonti di ispirazione si hanno, meno limiti estetici e pregiudizi ti poni, più puoi scegliere. Ad esempio, io ho della musica che non mi interessa, non che sia musica brutta, ma che proprio non mi interessa… perché non mi serve. Però non la escludo a priori.
E’ importante sperimentare alcuni strumenti che magari prima non usavo. Mi fece ridere quando Vasco utilizzò per la prima volta gli archi, i violini in un suo disco: tre mesi prima dell’uscita cominciò ad avvisare il pubblico che in quel disco ci sarebbero stati i violini. Lui aveva sempre utilizzato gli strumenti rock per definizione, e mi ricordo questa specie di avviso, come a dire “ci sono gli archi, ma io sono ancora rock”, come a mettere le mani avanti! Io, ad esempio, presentai la mia prima vera canzone d’amore solo nel terzo LP (“Non è nel Cuore” – Diesel, 1977). Mi ricordo che quando la scrissi mi dissero che non potevo mica scrivere quelle cose lì, “la prima volta che ho fatto l’amore non è stato un granché divertente”, era scandaloso! …a me piace anche la Trap, anche quella sporca per capirci… mi interessa. Se vuoi stupire oggi cosa devi fare…?
A.G.: Mi sembra che i talent show abbiano un po’ condizionato la musica, soprattutto riguardo ai più giovani. E’ solo una mia idea e sto invecchiando o c’è un fondamento?
E.F.: No, è’ assolutamente vero. Ma tu pensa quanto ha condizionato il Festival di Sanremo, o l’avvento dei videoclip. Negli anni ’80 i video hanno rivoluzionato tutto, bisognava essere “carini”, non più bravi, bisognava avere un buon regista più che un buon produttore! Adesso ci sono i talent. Il problema dei talent show è che non producono individualità artistica, fanno il contrario di quello che ti dicevo prima: invece di onorare la propria “unicità”, la propria arte, come dice Fariselli, i talent cercano uno capace di fare tutto. Devi eseguire i brani degli altri, ti scelgono i pezzi da cantare… è tutta un’altra cosa, e infatti i bravi artisti escono fuori da altri meccanismi. Insomma, dai talent ancora non è venuto fuori il capolavoro… beh, sì forse Mengoni, un cantante con una buona tecnica…
Il problema è che ci vorrebbe un talent show per gli autori. Mi sembra che manchino proprio gli autori, quelli che scrivano canzoni importanti!
A.G.: Un consiglio diretto a chi si affaccia nel mondo della musica?
E.F.: I consigli sono quelli che ti ho già dato: ascoltare, avere umiltà, essere aperti al confronto, cercare persone che ti aprano nuovi orizzonti e alle quali aprire nuovi orizzonti. Poi, come dicevo, ascoltare “smantellando”: non puoi creare un nuovo tipo di motore se non smantelli quelli vecchi. Non si tratta solo di studiare musica, perché certe cose non servono a niente per fare certa altra musica, ma studiare nel senso di succhiare, imparare, insomma… quello che dicevo in “Scuola”: insegnare ad imparare. Ma soprattutto non limitarsi ad un solo genere. Io per esempio ho una mia musica: il blues e la barocca: Scarlatti, Bach… mi piace la musica indiana, col sitar, ipnotica… Io passo le notti ad improvvisare con la chitarra sul tema di “Going Down” che suonava anche Jeff Beck. Arrivato a questa età ho scoperto che queste sono le musiche di cui ho bisogno, necessarie come il pane, il latte, il vino. Poi c’è il resto, come per esempio il sushi, o i taco… gli altri sapori che non sono necessari ma che arricchiscono: io amo la musica cubana, sudamericana (Eddie Palmieri), quella greca, e la musica cinese, che viene usata anche a scopo curativo e in cina la si compera in farmacia. Insomma al mondo c’è tantissima musica che, secondo me, va ascoltata tutta.
Andrea Ghezzi – Musical Box © 2020 – Music-Alive
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